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Parashat Terumà 5767

E faranno per Me un Santuario ed Io risiederò in essi” (Esodo XXV, 8)

Abbiamo visto in passato come il precetto della costruzione del Santuario del quale iniziamo ad occuparci questa settimana sia strettamente legato ad Erez Israel.

Nel Talmud Bavlì, nel trattato di Sanedrhin (20b) è infatti riportato a nome di Rabbì Josè (secondo altri a nome di Rabbì Jeudà) che ci sono tre precetti “istituzionali” che Israele viene comandato di compiere nel suo ingresso in Erez Israel. Tali precetti sono “concatenati” ed in buona misura dipendono l’uno dall’altro. Essi sono: la nomina del re, la distruzione di Amalek e la costruzione del Santuario. Solo in Erez Israel possiamo portare a compimento il nostro compito nazionale come popolo indipendente e sovrano che santifica il mondo intero attraverso la costituzione di una società giusta nella quale Iddio risieda in ognuno di noi.

Questi precetti sono particolarmente legati a questo periodo dell’anno ed in particolare alle feste di Purim e Pesach, passando per Rosh Chodesh Nissan. Quest’ultimo è infatti il capodanno dei re, ossia il giorno che segna l’avvicendarsi degli anni di regno del re d’Israele, ed è anche il giorno in cui è stato per la prima volta eretto il Santuario. Quanto al precetto relativo alla distruzione di Amalek è evidente il nesso con Purim: Aman è discendente di Amalek e la Parashà di Amalek è la Parashà di Purim.

 

A ben vedere la rete di relazioni tra Purim e Pesach (anche attraverso i tre precetti “istituzionali”) è molto più ampia. Iniziamo col dire che gli eventi chiave della Meghillà, tra cui il digiuno di Ester, avvengono in effetti storicamente a Pesach. Pesach è legato a doppio filo con il Santuario non fosse altro per il fatto che la mizvà per eccellenza della festa, il korban Pesach, può essere fatto solo a Jerushalaim. Tant’è che il midrash, lo abbiamo visto in passato, ci stupisce dicendo che nella notte dell’uscita dall’Egitto Iddio ci ha condotti sulle ali delle aquile a Jerushalaim per fare il korban Pesach, perché non si può fare il Pesach nella diaspora.

Anche Purim è strettamente legato al Santuario. La storia di Purim comincia con un banchetto che celebra la cessazione della speranza nella ricostruzione del Santuario, banchetto nel quale Assuero si veste con le otto vesti del Sommo Sacerdote e tira fuori gli arredi del Santuario. Aman trova Mordechai intento ad insegnare come si fa la kemizà, il prelievo che i sacerdoti fanno dalle offerte farinacee. Per non parlare del fatto che secondo Rashì su Ester IX,10, i figli di Aman erano preposti all’impedimento della ricostruzione del Santuario.

 

Anche dal punto di vista concettuale, Purim e Pesach vengono affiancate dai Maestri che in questo modo giustificano anche il fatto che in presenza del doppio Adar degli anni embolistici Purim si festeggi nel secondo Adar, quello prossimo a Pesach: per affiancare redenzione a redenzione. Non solo, secondo il principio per il quale Moshè ha stabilito che si debba iniziare a studiare le regole relative ad una festa trenta giorni prima di questa, ne risulta che Purim è il momento in cui si devono iniziare a studiare le regole di Pesach. E la prima regola di Purim è il kimchà dePischà, la farina che si deve dare ai poveri perché abbiano di che fare le mazzot, e la si studia nel giorno per eccellenza nel quale si fanno doni ai poveri.

 

Abbiamo anche visto come l’obbligo di ubriacarsi a Purim fino a non sapere distinguere tra “benedetto Mordechai” e “maledetto Aman”, sia strettamente legato al principio pasquale per il quale la premessa al Seder di Pesach è il sapere di non sapere.

 

In questa complessa rete esiste però un rischio ed è quello di intossicarsi a tal punto con il vino dell’esilio da non capire la differenza tra Purim e Pesach. Vorrei provare ad approfondire questo aspetto con l’ausilio di due interessanti passi talmudici.

 

Nel trattato di Meghillà (7b) troviamo il resoconto del banchetto di Purim che fece Abajè in casa di Marì bar Mar. Abajè era stato inviato da Raba suo Maestro a presentare il Mishloach Manot, i doni di Purim di questi a Marì bar Mar.

 

Abajè racconta: “Quando sono uscito dalla casa del Maestro [Raba] ero sazio. E quando sono arrivato lì mi hanno presentato sessanta vassoi con sessanta portate e mangiai da esse sessanta porzioni. E l’ultima portata che mi hanno presentato la chiamavano “Arrosto cotto nel suo succo” e volevo mangiare il suo vassoio dopo di esso. Ha detto Abajè: questo è quanto dice la gente ‘Il povero ha fame e non lo sa’; ed anche ‘C’è sempre posto per il cibo dolce’.

 

Il Chatam Sofer sostiene che bisogna intendere il racconto in maniera allegorica. Abajè, uscito da casa del suo Maestro Raba, era convito di essere “sazio” di Torà, ossia di aver studiato abbastanza. Giunto in casa di Marì bar Mar ebbe occasione di discutere con questi di ognuno dei sessanta trattati talmudici ed su ognuno di questi ebbe modo di imparare qualcosa di nuovo. L’ultimo trattato di cui parlarono, “l’Arrosto cotto nel suo succo” è il trattato di Pesachim, che tratta appunto delle regole di Pesach. Essendo quel giorno trenta giorni prima di Pesach iniziarono appunto a studiare le regole di Pesach. Abajè avrebbe voluto mangiare anche il vassoio, ossia studiare a fondo le regole di Pesach, ma Marì bar Mar non acconsente perché Purim non è ancora tempo per le regole di Pesach (cfr. Prì Chadash, O.Ch. 429).

 

In questo modo vanno capiti secondo il Chatam Sofer anche i due proverbi che porta Abajè: una delle caratteristiche del povero è quella di essere talmente abituato a non mangiare da non sentire la fame: ossia non siamo mai abbastanza consci di quanto non sappiamo. E d’altra parte c’è sempre spazio per il dolce, ossia c’è sempre un livello più profondo di comprensione che prima ci era celato.

 

Potremmo dire che la summa dell’insegnamento di Marì bar Mar ad Abajè nella Seudat Purim è l’avergli impedito di studiare tutte le regole di Pesach. Gli ha insegnato  che Purim non è Pesach.

 

Il secondo racconto talmudico si trova invece nel trattato di Taanit, ed è il celebre passo di Chonì HaMehaghel, che disegnò un cerchio per terra e disse al Signore che non si sarebbe mosso di lì fino a che non fosse piovuto. Ci sono due particolari rilevanti per noi in questo racconto. I Saggi chiedono a Chonì di pregare per la pioggia “visto che era passata la maggior parte di Adar e non era piovuto”. Ossia è almeno il quindici del mese, Purim Shushan. Prima di pregare Chonì avverte il popolo di metter via i forni nei quali avrebbero cotto i Pesachim per evitare che la pioggia li rovinasse. Da qui si comprende che il racconto è ambientato a Jerushalaim, giacché è l’unico posto dove si può cucinare il Pesach e quindi siamo a Jerushalaim di Purim Sushan. E che cosa dice Chonì? Levate di mezzo i forni di Pesach.

 

C’è un forte nesso tra questi due racconti: A Purim si parla anche di Pesach, si inizia a parlare di Pesach, ma Purim non è Pesach.

 

A questo punto dobbiamo allora chiederci come mai Purim e Pesach siano così vicine ed al contempo così lontane. Forse la risposta è proprio nel Santuario.

 

Purim celebra la redenzione dal pericolo di distruzione materiale, fisica, eppure, nelle parole del Talmud: sono ancora schiavi di Assuero. Purim, nel culmine della gioia, per il fatto che Iddio pur in modo celato è con noi in esilio ci ricorda anche tutto ciò che non va: la diaspora e l’assenza del Santuario sulle quali ci siamo soffermati nella derashà di Terumà del 5764. Pesach è invece la redenzione totale. Non c’è Pesach, non ci può essere il suo korban fuori dalle mura di Jerushalaim.

 

Ubriacandoci a Purim corriamo il rischio di non capire più la differenza che c’è tra Purim e Pesach, tra la Persia ed Erez Israel.

 

Nella stessa pagina il Talmud ci insegna a nome di Raba l’obbligo di ubriacarsi a Purim. Il Talmud racconta anche che una volta Raba e Rabbì Zerà fecero assieme la seudà di Purim e si ubriacarono. Raba era talmente ubriaco che uccise Rabbì Zerà. L’indomani Raba pregò e lo resuscitò. Quando l’anno successivo Raba invitò nuovamente Rabbì Zerà questi declinò l’invito dicendo che non avviene un miracolo in ogni momento.

 

I Maestri, anche in questo caso non leggono il racconto letteralmente. Secondo Rabbenu Avraham ben HaRambam Raba ferì solamente Rabbì Zerà. Secondo il Mharashà Rabà spinse Rabbì Zerà a bere più di quanto questi effettivamente volesse, tanto che si sentì così male da credere di morire. In senso assoluto la maggior parte dei Maestri intendono questo racconto come un monito del Talmud a ridimensionare il precetto di Raba circa l’ubriacamento.

 

A mio modesto avviso non possiamo non collegare questo evento ai personaggi in questione. Rabbì Zerà è forse il più sionista tra gli amoraim: la sua alyà dalla babilonia è un evento epocale anche e soprattutto nel mondo della Torà. Rabbì Zerà compie cento digiuni prima di salire verso Erez Israel per dimenticare il metodo di studio della Babilonia e poter apprendere la Torà di Erez Israel. Questa sua alyà avviene contro il parere del suo Maestro Rav Jeudà. Raba sarà poi proprio colui che diverrà capo della Yeshivà di Pumbedita al posto di Rav Jeudà.

 

Raba e Rabbì Zerà sono due modelli: la diaspora contro Erez Israel. Rabbì Zerà non vuole ubriacarsi al punto da non sapere la differenza tra Aman e Mordechai.

 

La disputa sul vino nella Seudat Purim diviene allora il simbolo della disputa tra Erez Israel e la diaspora.

 

Il Korban Pesach viene mangiato quando si è sazi, ma spiega Marì bar Mar ad Abajè, figlio adottivo di Raba, non si può essere veramente sazi a Purim.

 

La chiave di volta del servizio Divino che veniamo chiamati a compiere a Purim è quella di capire che in realtà non capiamo. Questa è la preparazione alla festa di Pesach nella quale Iddio ci redime dalle nostre false convinzioni. Il rischio di Purim, direbbe Rabbì Zerà, è quello di adempiere al precetto di Purim talmente a fondo da non capire quanto questo ci allontani da Pesach e da Erez Israel.

 

È straordinario allora Chonì che non vuole forni di Pesach mentre prega per la pioggia.

 

Pesach è l’epoca della rugiada, dell’amore. La pioggia è nella dimensione della giustizia.

Se volete la pioggia, allora mettete da parte Pesach. Pesach è altro, Pesach è la dimensione dell’amore gratuito nel quale Iddio ci redime contro la nostra stessa volontà, a prescindere dalla nostra totale incomprensione di quanto siamo caduti in basso nell’innamoramento per l’esilio.

 

Purim è alle porte, e dopo di esso Pesach.

Nel rallegrarci, nel bere e nel non sapere, cerchiamo allora di capire però come fare di questo non sapere il trampolino per meglio celebrare la festa di Pesach e non un inutile celebrazione della diaspora. Ricordiamoci del perché non leggiamo l’Hallel per un miracolo avvenuto fuori di Erez Israel e prepariamoci a leggere l’Hallel Hagadol della grande notte di Pesach nella quale Iddio ci redimerà presto, con la redenzione completa.


Shabbat Shalom,

Jonathan Pacifici