L’audio della serata al Tempio Maggiore, 22 marzo 2010

Il test di autovalutazione.

 



La battaglia del grano a Roma

Rav Riccardo Shmuel Di Segni


Dopo lo scarno comunicato dell'altro ieri sul divieto di vendita al dettaglio della farina kasher lePesach si è sentita la necessità di una relazione dettagliata su quello che è successo. E' quanto viene presentato nella nota che segue. Invito tutti coloro che hanno delle osservazioni da fare a leggere prima questa relazione.

Per cominciare
Negli ultimi decenni in tutti i campi c'è stata un'evoluzione tecnologica per cui le produzioni sono passate da domestiche ad artigianali a industriali. Persino per i computer è successa la stessa cosa: chi si ricorda i primi personal di 25 anni, sui quali ci si divertiva a fare i programmini in basic? ora i programmi si comprano belli e fatti e molto sofisticati e solo pochi li sanno scrivere. L'evoluzione tecnologica ha un impatto radicale su tutto e in particolare sulle nostre abitudini alimentari. E questo riguarda anche la kasherut, dove tutto è più raccorpato, industrializzato, super controllato.
Un tempo, neppure troppo lontano, le azzime e gli altri alimenti per Pesach si facevano a casa o in piccoli forni artigianali. Ora ci sono i medi e grandi stabilimenti. I motivi per questa evoluzione sono almeno due: la tendenza generale della società a industrializzare e la difficoltà di produrre alimenti nel rispetto preciso di tutte le regole, che a Pesach sono, come tutti sanno, complicate e rigorose.

Per questo non stupisce il fatto che nei testi classici di halakhà si parli di distribuzione di farina ai poveri prima di Pesach, con sottolineatura che è proprio la farina che viene data, non il prodotto finito (approfitto per l'occasione per ricordare che non bisogna dimenticarsi l'obbligo di solidarietà verso chi non ha risorse sufficienti per sostenere il carico economico di Pesach). Un esempio illustre è nella Mishnà Berurà (Orach Chayyim 429:1 nota 4), di neppure un secolo fa, dove si parla di quest'uso, diffuso "nelle nostre regioni", l'Europa orientale askenazita. Ma oggi è molto più semplice dare un pacco di azzime industriali e la farina non la si cerca e non la si dà più Il cambio di abitudini e di organizzazione produttiva, insieme a una crescente preoccupazione rabbinica per un uso improprio della farina in comunità meno osservanti, hanno fatto sì che progressivamente in gran parte del mondo ebraico la farina sia quasi scomparsa dal mercato prima di Pesach. Trovare in commercio la farina in una rivendita kasher lePesach fa ormai lo stesso effetto di trovare in commercio carne non kasherizzata (dissanguata) in una macelleria kasher, ma fino a poco tempo fa te la dovevi kasherizzare a casa. C'è un'evoluzione continua, c'è una globalizzazione dei sistemi. Roma ebraica è rimasta un'eccezione ma deve fare i conti con la globalizzazione. Roma non è un'isola extraterritoriale o una scheggia impazzita del mondo ebraico.

La tradizione delle ciambellette
A Roma la farina viene acquistata per farci dei dolci, ciascuno secondo la propria tradizione domestica (ciambellette ecc.). Qualcuno dice che è un minhag, un "uso". Parlare strettamente di minhag in questo caso, con tutte le implicazioni che ne possono derivare (in qualche caso, ben preciso, il minhag prevale sulla regola) non è tanto adeguato. Va però detto che si tratta certamente di una bella tradizione in cui si applica in casa un'atmosfera festiva, si dà alla festa una partecipazione particolare e famigliare, si diventa protagonisti, si ricevono e si trasmettono gli usi di casa, gli affetti, gli odori e i sapori. Tutte cose da mantenere. Solo che...

Solo che in molti casi può succedere che si sia persa, o mai avuta, la conoscenza precisa delle regole da rispettare e si rischia di produrre chametz
. E allora cosa è più importante? A Pesach ci sono delle regole da rispettare, prima di tutto. Poi vengono le abitudini. Si rispetta Pesach eliminando il chametz e se qualche cosa, anche di meritorio, produce il chametz, non è consentita. Non c'è spazio di discussione su questo, è evidente, non ci si può appellare alla regola (generica) per cui il minhag potrebbe prevalere sulla halakhà. Dunque è chiaro che se le ciambellette sono chametz non c'è alcun permesso di farle e di tenerle, anche se è una bella tradizione familiare. Non c'è nessun fondamento halakhico per sostenere questo principio; non si può usare la halakhà (di cui ha solo una "infarinatura", termine in questo caso quanto mai appropriato) in un modo così disinvolto. Questo per quanto le scelte di ciascuno dentro casa sua. Poi entra in gioco il ruolo dei rabbini.

Che c'entrano i rabbini con quello che faccio dentro casa mia?
E' una delle osservazioni più ricorrenti. I rabbini c'entrano quando c'è un fenomeno scorretto privato e tanto più collettivo che possono controllare o correggere, perchè se non lo fanno ne sono corresponsabili. E non solo i rabbini, ma ogni ebreo che non interviene, perchè su questo non c'è nessuna delega ai rabbini (è il principio ebraico di responsabilità collettiva).

Proviamo a chiarire il problema con un esempio più generale: se un qualsiasi esercizio commerciale vende della merce che viene usata per commettere un reato c'è una responsabilità del venditore? Il farmacista è colpevole se vende un farmaco che far star male o uccide qualcuno? E' corresponsabile se l'ha venduto senza ricetta. La ricetta garantisce entro certi limiti che chi compra ha il permesso di usare un oggetto pericoloso.

Nel nostro caso non c'è un farmaco ma un divieto molto rigoroso della Torà; mangiare il chametz è punibile con il karet. La farina è come il farmaco pericoloso, la si può vendere solo con ricetta o darla a tutti come se fosse un farmaco "da banco"?

Il problema di fondo è che c'è un usanza locale bella e meritoria. Questa usanza può essere però praticata da qualcuno in modo scorretto. Per correggere la scorrettezza i rabbini possono intervenire in due modi:

a. Bloccare completamente l'uso, impedendone così l'abuso, ma togliendo la possibilità di farlo seguire anche a chi la fa in modo corretto.

b. Spiegare alle persone il modo corretto di fare le cose, nella speranza che chi sbaglia si adegui.

Il problema non si pone solo per le ciambellette, è molto più antico. Due millenni fa i rabbini proibirono di suonare lo shofar di Rosh haShanà o di agitare il Lulav a Sukkot quando la festa cade di Sabato, perché la gente profanava lo Shabbat portando per strada shofar e lulav. Oggi un'infinità di cose potrebbero o dovrebbero essere proibite per l'uso improprio che se ne fa. Rav Menachem Artom z. l. faceva l'esempio del taled, bisognerebbe proibirlo di Shabbat perchè la gente lo porta al beth hakeneset da casa. Bisognerebbe chiudere le Sinagoghe di Shabbat, perchè molte persone ci vanno in macchina. Bisognerebbe chiudere i macellai kasher e gli spacci dove si vende formaggio kasher perchè molta gente non sta attenta a non mescolare la carne con il latte o magari cucina di sabato. Bisognerebbe, ma non lo si fa, evidentemente perchè non si elimina un servizio o una mitzwà a tutti perchè qualcuno usa il servizio o fa la mitzwà commettendo trasgressioni. Ma allora perchè proibire con la stessa logica la farina? La differenza con gli esempi precedenti è che la farina e le ciambellette, a differenza del taled, del servizio sinagogale, della carne kasher non sono servizi essenziali e non sono mitzwà. Quindi, a fronte del vantaggio derivato dal mantenimento di una bella tradizione si ragiona che è meglio proibire la circolazione della farina in mani inesperte per evitare danni peggiori. Così si pensa e si fa in molte parti del mondo, tanto che Roma era rimasta un'isola strana; ma a Roma come si era ragionato finora?

La posizione del rabbinato romano
Il rabbinato romano è consapevole che nella Comunità esista una situazione molto complicata sull'uso della farina, c'è chi sa come comportarsi e segue le regole, chi consoce le gole e non le segue e chi non conosce o non vuole conoscere le regole. Rispetto all'ipotesi drastica di proibirne la vendita si è preferita l'altra ipotesi, quella informativa. La farina comune disponibile in commercio è molto dubbia nella sua kasherut lePesach: i chicchi vengono abbondantemente bagnati prima della macinazione. Si è giudicato pertanto preferibile fabbricare sotto nostro controllo della farina non bagnata. L'altro intervento è stato esplicativo: su ogni confezione sono state stampate le istruzioni su quello che si può fare, come e entro quando lo si può fare. Le stesse istruzioni vengono date in un foglio a parte a ogni acquirente della chavorà.

Ciò che ha indotto il rabbinato romano a questa posizione "controcorrente" rispetto all'ampia maggioranza dei rabbini del mondo è la radicalità delle abitudini locali; imporre bruscamente e senza adeguata preparazione un cambio di comportamento avrebbe determinato, nella nostra valutazione, un'ondata di proteste e di incomprensione, di ostilità e disaffezione, come sta accadendo effettivamente ora. Prima ancora che scoppiassero le proteste, prevedevamo benissimo le reazioni delle persone, che ora sono dappertutto al centro delle discussioni, delle telefonate, dei blog, delle mail. Vengono fatte tante obiezioni; la principale l'abbiamo vista prima, che vi importa dell'uso che faremo della farina. E ancora si chiede: come vi permettete di giudicare se io sappia o non sappia rispettare le regole? purtroppo sappiamo che un bel po' di persone non conosce le regole o non sono interessate a seguire le istruzioni, e non ce la sentiamo di fare distinzioni odiose tra osservanti e meno osservanti. E ancora: perchè vi preoccupate tanto della farina quando non vi preoccupate del fatto che nel resto dell'anno non mangio kasher? Perchè la farina la vendiamo noi e il fatto che non mangi kasher non promette bene sul buon uso che farai della farina. E ancora: a Roma o a Tripoli si è sempre fatto così e non può venire nessuno a cambiare le nostre abitudini. E' vero, ma ammesso che in passato non solo le tradizioni ma anche le regole fossero rispettate, bisogna vedere se nel passaggio delle generazioni non vi sia stata perdita di informazioni e di attenzione all'uso corretto.

Comunque, anche se a tutte le domande si può rispondere, la nostra posizione era stata quella di non chiudere, subito e duramente, ma di creare le condizioni progressive per la comprensione del problema. Non perché si temesse uno scontro, ma perché si desiderava un'evoluzione virtuosa e condivisa. Questo fino alla settimana scorsa, quando il problema è esploso.

Cosa è successo?
Il rabbino Ronnie Canarutto, attivo a Roma, si è rivolto di sua iniziativa direttamente a Rav Amar, rabbino capo sefardita di Israele e Rishon LeZion, facendogli presente che gli ebrei romani non sanno usare adeguatamente la farina e chiedendo istruzioni. La risposta di Rav Amar è stata un ordine scritto perentorio rivolto a me di sospendere immediatamente la vendita della farina, per le motivazioni esposte nell'interrogazione di Canarutto. Ho immediatamente mandato una relazione dettagliata a Rav Amar per spiegare i motivi della nostra posizione, facendo presente che nell'imminenza di questo Pesach sarebbe stato drammatico gestire nella Comunità una crisi di informazione, ma anche di alimentazione. Rav Amar ha risposto con precisione a tutti i punti sollevati, considerandoli degni di attenzione ma non al punto di farlo recedere dalla sua posizione. I membri del Beth Din romano mi hanno chiesto concordemente di provare a spiegare di nuovo a voce a Rav Amar la nostra posizione, ho avuto con lui un colloquio telefonico per sottolineargli la difficoltà del momento, ma senza risultato. Così come altri contatti successivi attraverso altri canali non hanno avuto effetto.
I rabbini del Beth Din, dopo aver discusso della cosa con i dirigenti comunitari, sono arrivati alla conclusione che malgrado la nostra differente valutazione non si poteva andare contro l'ordine di Rav Amar.

Questa decisione apre delle domande serie che richiedono spiegazioni. Le prime domande sono "tecniche".

Sono stati prodotti vari quintali di farina controllata, che fine fa se non si vende? E che dolci mangeremo?
Come tutti gli anni una parte consistente della farina era destinata dall'inizio ad un noto forno dolciario privato, il resto è stato preso dalla chavorà della comunità e da altri rivenditori privati.

Il forno privato userà la farina per produrre come sempre i suoi dolci. La gente chiede: perchè loro si e gli altri singoli privati no? Perchè la vendita è stata proibita al dettaglio e quel forno produce sotto costante nostra sorveglianza una quantità ingente di dolci. Controllare un unico forno si può, centinaia di abitazioni private no.

Ma in questo modo non si privilegia un esercizio rispetto agli altri? Come è possibile consentire un'unica produzione che vende a prezzi molto alti mentre chi non si può permettere la spesa non può farsi i dolci in casa? Per rispondere a questa legittima obiezione e anche per smaltire la farina che rischiava di rimanere inutilizzata la comunità ha attivato in tempi rapidissimi la produzione alternativa di dolci tradizionali che saranno venduti a un prezzo rigorosamente calmierato, quasi di puro costo, nella chavorà e dagli altri rivenditori che metteranno a disposizione la farina da loro acquistata. I tempi sono strettissimi e si prevede che i primi dolci saranno sul mercato dal pomeriggio di Domenica 21. Perlomeno c'è stato un grande risultato virtuoso: dolci per tutti a prezzi calmierati.

L'altra domanda è meno tecnica ma molto più delicata:

Perchè avete accettato l'ordine di Rav Amar?
Gli argomenti di protesta che accompagnano questa domanda sono: come si permette questo rabbino di dettare legge a distanza, di cambiare le nostre tradizioni, di mancare di rispetto a tutta la comunità; non abbiamo papa e gerarchie, ogni comunità è autonoma; se ci facciamo imporre questo rigore come ci salveremo da altre imposizioni. La risposta è che rav Amar, per la sua autorevolezza personale e per la funzione che svolge in Israele è tutt'altro che una persona qualsiasi nel mondo ebraico. Se si fosse espresso un qualsiasi altro Maestro, benchè autorevole, avremmo potuto far valere la nostra valutazione differente. Ma rav Amar ha l'autorità storica del Rishon leZion, ha funzioni di garanzia e di controllo sui tribunali rabbinici di Israele, e benchè ogni Beth Din sia autonomo, se non viene riconosciuto in Israele, le sue decisioni vengono messe in discussione. Ogni giorno da Roma produciamo al rabbinato centrale d'Israele certificazioni di ebraicità, di nozze, di divorzi. Senza il riconoscimento di rav Amar sarebbero dei semplici fogli di carta. Come lo sarebbero i certificati dei nostri ristoranti. E poi rav Amar investe su Roma, ogni settimana c'è un gruppo di fedeli che ascolta in diretta le sue lezioni, ci ha visitato molte volte,
conosce pregi e difetti della nostra comunità. Molte volte è stato il nostro riferimento per decisioni halakhiche. Per moltissimi sefardim della nostra comunità è l'autorità indiscussa. Non è un estraneo e ha potere su di noi. Non possiamo non considerare con il giusto peso le sue decisioni. La questione che si dibatte oggi a Roma è una tradizione locale a cui teniamo, ma in altre parti del mondo è incomprensibile. Anche volendo non avremmo trovato qualche Autorità seria disposta a sostenerci. E poi nella nostra Comunità non ci sono solo quelli che protestano, c'è anche un gruppo che appoggia la decisione di rav Amar.

Questa storia deve indurci a riflettere, dopo le reazioni comprensibili di orgoglio e di protesta, sulla fragilità della nostra Comunità. Perchè è bastato lo zelo di un giovane shaliach, che ha fatto una domanda, per mettere in crisi un sistema. Perchè se ci fosse stata una base molto più larga di osservanti, di studiosi, di grandi Maestri riconosciuti e non solo di produttori domestici di ciambellette questo problema non sarebbe nato, o avremmo potuto gestirlo con ben altra forza. Siamo una comunità molto mediatica, molto influente sul piano politico, anche molto litigiosa, ma la nostra forza sul piano della Torà è ancora molto bassa. Ed è su questa forza che si gioca il nostro futuro.

(Nella foto: Rav Amar e Rav Di Segni al Tempio Spagnolo di Roma)


(Impaginazione a cura di www.morasha.it)