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RAV RICCARDO PACIFICI - DISCORSI SULLA TORÀ

LIV

VEZOTH HA-BERAKHÀ

(Deuteronomio XXXIII)

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Anticipo da oggi l'illustrazione all'ultima Parashà della Torà che leggeremo Martedì prossimo (14 ottobre 1941), quest'ultima Parashà che è la degna chiusura di tutto il Pentateuco, oltre che del quinto libro di Mosè.

La Parashà ci presenta gli ultimi istanti della vita di Mosè sulla terra: dopo gli avvertimenti solenni a più riprese enunciati e che io vi ho illustrato nelle Parashoth precedenti, dopo gli ammonimenti solenni, l'estremo saluto, l'estremo augurio. Come un padre prima di morire benedice i suoi figli, così Mosè, padre spirituale di tutto Israele, impartisce ad ogni tribù la sua benedizione; così aveva fatto anche il terzo patriarca, Giacobbe, quando in terra d'Egitto aveva benedetto i suoi figli: con quella benedizione si chiude il primo libro della Torà, con questa benedizione si chiude l'ultimo. Là erano presenti i 12 figli d'Israele Giacobbe, qui i 12 figli sono diventati le 12 tribù di un grande popolo. Anche lì, però, come qui, il padre nella sua benedizione presagisce con occhio profetico l'avvenire dei dodici figli, annuncia in breve sintesi quali saranno i futuri destini, le future attività, le funzioni e i compiti di ogni prosapia d'Israele. Anche qui l'animo del profeta detta i suoi sentimenti alla bocca del poeta, che con accenti sublimi ci delinea le caratteristiche salienti di ogni tribù e quasi ci fa passare dinanzi allo sguardo la visione del futuro Israele, dell'Israele ormai stabilito nella sua terra. Ma di questa magnifica pagina io non posso tracciarvi tutte le bellezze, tutti i riposti pensieri, tutte le piccole e grandi sfumature, non posso guidarvi attraverso queste fervide parole augurali, sino all'invocazione massima che tutte le supera e le corona, sino all'invocazione che esalta la beatitudine unica di Israele: popolo unico di Dio. Io mi limiterò soltanto a dirvi che qui, proprio in queste ultime righe della nostra Torà, la personalità eccelsa di Mosè si stacca in tutta la sua divina grandezza, proprio nel momento in cui egli contempla e benedice il suo popolo, contempla e ammira la terra. Proprio in queste pagine c'è la sintesi di Mosè uomo, di Mosè profeta. Qui egli si innalza al di sopra degli uomini, qui egli è più che altrove, nelle pagine del suo libro, "uomo di Dio". Non a lui l'ingresso in quella terra che era stata il suo sogno, non a lui i trionfi delle conquiste terrene, non a lui gli onori del regno e del trono. Mosè è superiore alle conquiste, agli onori, ai troni e ai regni di tutta la terra. La sua titanica figura si può dire si dilegua insensibilmente dallo sguardo del popolo, che ne sa imminente la dipartita estrema, la sua figura che ammira dalle alture del monte Nebo la terra d'Israele, non discende più da quelle alture, ma sparisce di là nella purezza dei cieli e nell'amplesso di Dio. La sua morte non conosce l'esaurimento e l'agonia del corpo, non conosce neppure la diminuita vitalità della mente e dello spirito. Mosè è vegeto e forte nel corpo e nello spirito e la morte non è il segno della fine, ma quasi l'annuncio della sua esaltazione, del suo trasumanarsi, del suo passaggio naturale e insensibile dalla sfera dell'umano a quella del divino.

La morte di Mosè è come dicono i nostri maestri, la morte nel bacio di Dio, sublime immagine poetica che solo gli ardimenti poetici del Midrash potevano creare, sublime immagine nella quale si compendia il significato di una vita così alta che culmina nell'unione dolce e nell'amplesso di Dio. Mosè si allontana da questa terra e nel momento del suo distacco, nessuno gli è vicino, nessuno né dei familiari, né dei discepoli, né del popolo; egli è solo come tutti i grandi spiriti, egli è solo al cospetto di Dio. Egli si diparte, ma i resti mortali del suo corpo, non sono raccolti e composti nella pace del sepolcro: non una tomba, non un mausoleo, perché nessun monumento terreno sarebbe stato degno di lui. Solo Iddio assiste al suo trapasso, solo Iddio si interessa della sepoltura di Mosè, nessuno sarebbe stato degno di tanto ufficio, ed ecco quindi che il monte e la valle sono la sua sepoltura, ecco quindi che nel teatro grandioso di questo spettacolo naturale, lì alle pendici del monte Nebo, all'ultimo corso della valle del Giordano, là dinanzi agli estremi limiti della terra d'Israele, là in quel quadro si chiude la vita terrena del grande condottiero: "Velò qam navi 'od be-Israel" (Deut., XXXIV, 10).

E non sorse più profeta pari a Mosè, che potesse conoscere il Signore faccia a faccia. Queste parole che con poche altre chiudono il testo della Torà, sono l'elogio più alto di lui. "Non sorse più" ma lo spirito ebraico, che legge, intende anche: non sorge e non sorgerà più. Mosè uomo di Dio, profeta sommo, ha realizzato sulla terra l'ideale dell'uomo vicino a Dio. Egli è stato l'uomo, l'uomo e il maestro, il condottiero, il supremo moderatore, e il più profondo conoscitore dell'anima della sua gente, colui che ha avvicinato questa gente a Dio, colui che ha portato a questa gente la legge e l'insegnamento di Dio. Questo è l'uomo Mosè che non ha lasciato monumenti di marmo o di bronzo, questo è l'uomo di cui Israele non conobbe la sepoltura, perché egli non è morto, ma è vivo in mezzo al suo popolo, attraverso la sua parola, il suo insegnamento eterno di verità, attraverso la sua legge che non sul marmo o sul bronzo, ma sui cuori nostri sta scritta e non è destinata a scomparire, come i monumenti terreni, perché questa è la Torà, che a noi ha comandato Mosè, eredità di tutta la progenie di Giacobbe: "Torà tzivvà lànu Moshè morashav qehilath Ja'aqov" (Deut. XXXIII, 4).