RAV RICCARDO PACIFICI - DISCORSI
SULLA TORÀ
XXXII - XXXIII
BEAR SINÀI - BECHUQQOTAI
(Levitico XXV - XXVII)
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Parlando l'altra settimana dell'Omer, ebbi occasione di mettere in rilievo il valore della terra nel quadro delle istituzioni della Torà; dissi e ripeto che vi è tutta una serie di leggi della Torà, che sono strettamente legate alla terra, leggi di ordine agricolo, leggi che traggono ragione e motivo dalla terra, leggi che purtroppo noi non attuiamo e che spesso più non comprendiamo per il nostro distacco dalla terra. Quasi a conferma di ciò, noi vediamo nella prima delle due Parashoth odierne, un'importantissima disposizione della Torà, che trae ragione di vita dalla terra e che, fatto sintomatico, è ricollegata improvvisamente alla rivelazione sul Sinai. Dice infatti la nostra Parashà "quando verrete alla terra che Io sto per darvi, la terra riposerà un sabato al Signore; sei anni seminerai il tuo campo, sei anni poterai la tua vigna, ne raccoglierai il prodotto, e l'anno settimo sarà sabato solenne per la terra, sabato al Signore, il tuo campo non mieterai, la tua vigna non poterai" (Levitico XXV, 2 e seg.). Grande istituzione doveva essere questa dell'anno di shemità, o anno sabbatico, se la Torà sente il bisogno di ricollegarne l'origine al monte Sinai, tanto che i nostri maestri si domandano quale sia il nesso di questo richiamo, e rispondono affermando che tutte le Mizvoth sono, è vero, state promulgate sul Sinai, ma di questa si sottolinea espressamente la sua origine sinaitica, quasi per metterne in maggior rilievo l'importanza. Anno sabbatico, abbiamo detto; sì, come vi e' un sabato per l'uomo, così vi è un sabato per la terra e si può dir così che l'anno sabbatico sta alla vita sociale come lo Shabbath nostro sta alla vita individuale; come il nostro shabbath non è il vieto riposo fisico, ma il nostro ritorno a Dio, e alla vita dello spirito, così l'anno sabbatico non è il riposo della terra, ma il ritorno della terra a Dio; ritorno della terra e ritorno degli uomini a un più largo respiro di vita, perché è in questo stesso anno che lo schiavo riacquista la libertà e che al debitore vengono rimessi i debiti: come lo shabbath è il giorno del respiro, del sollievo spirituale, così è l'anno sabbatico, in cui tutti debbono sentirsi sollevati, in cui quasi la società ebraica riprende lena, e riattinge le forze per l'inizio del nuovo ciclo settennale, come l'uomo nello shabbath dovrebbe riattingere le forze spirituali per le fatiche giornaliere. Un riposo della terra come questo immaginato dalla Torà, doveva esser certo una gran cosa per un popolo agricoltore; il silenzio e l'interruzione dei lavori dei campi, la pace solenne che doveva aleggiare in mezzo alla campagna, erano elementi che dovevano parlare il linguaggio della sovranità di Dio nel creato. Questa terra che Dio aveva dato all'uomo per il suo lavoro, questa terra nel cui seno si affondavano gli aratri e gli altri strumenti del lavoro agricolo, questa terra che l'uomo si abituava a considerare come sua proprietà, questa terra doveva affermare invece che non dall'uomo essa dipende, ma da Dio; essa doveva come liberarsi dalla servitù dell'uomo e affermare che la terra è di Dio, che ne è il vero padrone; sulla terra non ci sono padroni umani, tutti sono eguali di fronte ad essa, tutti debbono goderne i prodotti e per ciò in questo sabato della terra, tutti anche gli spodestati, anche i nullatenenti, dovevano godere, tutti eran chiamati a usufruirne nella stessa misura di ciò che la terra avrebbe spontaneamente prodotto, tutti potevano assidersi tranquillamente e indisturbati all'ombra di una vite o di un fico, perché tutti si sentivano eguali, tutti, liberi e schiavi, figli d'Iddio, figli della terra, di questa terra che con inimitabile linguaggio canta sempre la sovranità e la grandezza di Dio che come dice il salmo: "Cantino quindi tutti gli alberi del bosco..." (Salmo XCVI, 12), sono gli alberi dei boschi, sono i fiori, sono le messi, sono i fili d'erba, sono i giardini e i campi sui quali domina e regna l'idea d'Iddio.
Un'idea così alta e sublime non poteva nascere che in Israele; non poteva nascere che in un popolo radicato sulla propria terra ed amante della vita dei campi. E del resto noi vediamo che quest'idea del valore della terra quasi come strumento e mezzo mediante il quale Dio rivela il Suo gradimento, o la Sua condanna per la condotta del popolo, è ben chiaramente espressa anche in quella mirabile seconda Parashà di oggi, che contiene gli annunci della retribuzione in bene o in male che attende Israele in seguito alla sua obbedienza o disobbedienza ai comandi di Dio. " E darò la pioggia al suo tempo, la terra darà i suoi prodotti, gli alberi del campo i loro frutti, la trebbiatura raggiungerà la vendemmia, la vendemmia la semina, mangerete a sazietà il vostro pane e risiederete tranquilli sulla vostra terra" (Levitico XXVI, 4 e seg.). Qui c'è il respiro di vita agreste, qui c'è odore di campi e di vigne! Ma anche quando le gravi punizioni sono inesorabilmente minacciate, quando come ultimo gradino del pauroso crescendo di calamità che vengono previste, si annuncia l'esilio, la terra ricompare a più riprese: "allora gradirà la terra i suoi sabati tutto il tempo in cui resterà desolata mentre voi sarete in paese nemico; allora riposerà la terra e gradirà i suoi sabati" (Levitico XXVI, 34).
Grande annuncio, puntualmente verificatosi: Israele che non ha osservato la grande legge dell'anno sabbatico, che ha violato le norme della vita sociale e ideale, si vede allontanato da quella terra che esso non ha saputo santificare con la sua vita. Da quella terra che ora abbandonata celebra la sovranità d'Iddio perché su di essa nessuno potrà lavorare! Lo spettacolo di secolare abbandono che ha offerto agli uomini la terra d'Israele è la più grande conferma di questo solenne annuncio biblico, ma se nonostante questo abbandono, Israele ha sempre sentito grande la nostalgia, il desiderio della terra, ciò si deve al grande amore che la Torà ha saputo istillarci per la vita dei campi, a quell'amore che, appunto perché inappagato, rende noi forse così lontani da tante norme della Torà, ma che se troverà il suo legittimo appagamento potrà riavvicinarci alle prime fonti da cui è sorta la nostra vita ed alle quali noi dovremo tornare per dissetare la nostra grande sete d'Iddio.