RAV RICCARDO PACIFICI - DISCORSI SULLA TORÀ


XXVI

SHEMINÌ

(Levitico IX, XI)

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Continuando l'esame dei punti più salienti delle nostre Parashoth, ci incontriamo con questa Parashà, che nella sua seconda parte tratta un argomento che tanta importanza e rilievo ha nel complesso della vita ebraica: voglio dire delle leggi rituali sull'alimentazione, o ancora meglio sulla purità e impurità degli animali. A prima vista potrà meravigliare di trovare qui, accanto alle leggi sui sacrifici e alle leggi del Santuario, le prescrizioni relative alle specie di animali che sono permesse o vietate, ma si deve pensare che proprio nel quadro di questo libro che tratta delle leggi sacerdotali, delle leggi di purità e di santità, trovano posto quelle leggi che particolarmente debbono accentuare il carattere di santità d'Israele, popolo sacerdote.

Non v'è forse capitolo nella nostra Torà che più di questo sia frainteso e mal conosciuto fra di noi; non v'è soggetto più di questo intorno al quale si formulino le più svariate e arbitrarie interpretazioni. Parlando delle leggi sugli animali ed in genere sui cibi proibiti dalla Torà, accade sovente, quasi sempre, di sentir dire:

"Quelle sono prescrizioni alle quali io non mi attengo, sono leggi che hanno avuto come base dei principi d'igiene e di sanità fisica, si è voluto con esse salvaguardare l'integrità del corpo e pertanto esse sono oggi superflue, dati i progressi della scienza medica e dell'igiene a questo riguardo". Non v'è errore più grossolano di questo: eppure esso è molto diffuso tra di noi, e spiega, fino a un certo punto, perché queste norme sono oggi trascurate dalla stragrande maggioranza degli ebrei dei nostri paesi. Ho detto errore grossolano, perché attribuire a quelle prescrizioni un valore puramente sanitario, è portare la nostra Torà al livello di un manuale d'igiene e di dietetica. Se la Torà fosse tale, forse essa sarebbe ormai dimenticata anche di mezzo a Israele e invece essa è sempre viva e attuale, perché appunto il carattere della Torà è ben superiore a quello di un libro scientifico. Dato ciò, è evidente che il motivo fondamentale che sta alla base delle leggi alimentari non può essere quello che comunemente è diffuso, ma un altro molto più elevato: esso è quello che è sinteticamente indicato alla fine della Parashà, dopo che sono state emanate le norme anzidette; là si dice: "Non vi contaminerete con questi animali e non vi renderete impuri, perché io sono il Signore Dio vostro e vi renderete santi con la vostra vita e tali sarete, perché Santo sono io, il Signore" (Levitico XI, 43-44). Come si deduce da questo verso, la cui grave solennità non può sfuggire ad alcuno, il motivo addotto per le leggi alimentari è quello stesso che sta alle basi di tutta la vita ebraica, è quella stessa indicazione che troviamo prima dei Dieci Comandamenti o prima delle leggi sociali e morali prescritte in altri passi, è il motivo che per così dire investe tutta la vita ebraica e non una parte di essa. Non v'è dunque per queste leggi un motivo particolare, ma per esse invece sussiste il grande principio animatore di tutta la Torà: il principio di dare alla propria vita un modello di santità, di portarla sempre più sul piano del divino, di legarla a Dio in tutte le manifestazioni. Non quindi religione nel senso di settore speciale, di angolo riservato al divino, ma santità della vita, cioè integrale condotta religiosa: tutta la vita è religione, anche gli atti che possono sembrare i più insignificanti i meno indicati; anch'essi debbono per così dire, essere spiritualizzati e santificati; anche il cibo, anche la mensa, è una cosa santa, non animale quando chi si asside a quella mensa e chi mangia dei cibi di essa, sa di non mangiare indifferentemente di tutti i cibi, ma solo di quelli più puri, sa astenersi da certi cibi impuri e sa quindi applicare alla vita fisica quegli stessi principi che regolano la vita morale e spirituale, sa portare questo atto del cibo, che tanta importanza ha nella vita dell'uomo, a un livello superiore, sa riportarsi a Dio e all'esempio di santità, anche nel momento in cui la sua vita si fa più materiale.

Questo dunque vuole la Torà con le prescrizioni di questa Parashà e con tutte quelle che ad essa indirettamente si riallacciano: vuol affermare il principio dell'indissolubile unità santa della nostra vita: non c'è santità dell'anima distinta da quella del corpo. Non c'è un atto della vita che è più importante dell'altro: tutti gli atti sono, debbono essere santi; egualmente il corpo e l'anima debbono essere santificati nel processo quotidiano della nostra esistenza; attraverso entrambi noi possiamo affinare la nostra vita e salire sempre più al cospetto di Dio.

"Santi sarete perché Santo sono Io, il Signore Dio vostro".