RAV RICCARDO PACIFICI - DISCORSI SULLA TORÀ


XIV

VAERÀ

(Esodo VI, 2 - IX)

L'INTERVENTO DI DIO NELLA LIBERAZIONE DI ISRAELE


Questa Parashà e la successiva ci introducono nel pieno svolgimento della missione di Mosè, esse ci presentano in ampia e lunga esposizione il susseguirsi delle lunghe e alterne trattative tra Mosè e il Faraone per ottenere la liberazione d'Israele, esse ci dimostrano come si determinò e si svolse la lunga serie dei castighi, nota comunemente sotto il nome di "piaghe" a mezzo dei quali il ribelle Faraone avrebbe dovuto indursi a lasciar libero il popolo di Israele.

Un'osservazione che qualcuno potrebbe muovere intorno ai racconti di queste due sezioni bibliche è la seguente: se il Signore aveva deciso la liberazione d'Israele, a che scopo il succedersi di tanti flagelli sul protervo monarca egiziano? Non sarebbe bastato uno solo di essi, una sola manifestazione dell'onnipotenza divina per vincere la ritrosia del Faraone e riscattare Israele dalla schiavitù? A questa osservazione si può rispondere con le stesse parole che Mosè pronunciò dinanzi allo stesso Faraone: "ma appunto perciò ti ho fatto sopravvivere, onde mostrarti la mia gloria e onde tu possa narrare (i portenti) del mio nome in tutta la terra" (Es. IX, 16). Il graduale, lento susseguirsi delle prove e delle punizioni risponde a un piano della divina volontà: è il Signore che mentre vuol mostrare la Sua tolleranza verso il peccatore, vuol anche dare all'Egitto e al suo re, una serie di grandi insegnamenti, sulle verità di Dio e sui criteri della Sua giustizia nel mondo.

Proprio in mezzo a un popolo di idolatri, al cospetto di una nazione che era tra le più potenti dell'antichità, doveva rivelarsi la grandezza dell'Unico Dio. E così quel Faraone che aveva detto a Mosè: "chi è il Signore ch'io debba ubbidirlo?", doveva più tardi riconoscere la verità con le parole: " Il Signore è giusto, mentre io e il mio popolo siamo peccatori " (Es. IX, 27). Ma questo rivelarsi di Dio in mezzo a un popolo straniero e idolatra, era anche necessario, sotto un altro aspetto, per Israele. Chi avrebbe potuto far credere a quel popolo che gemeva sotto i ceppi di una schiavitù senza nome, chi avrebbe potuto convincerlo che nonostante quelle estreme condizioni di asservimento, si sarebbe determinata la salvezza? Potevano mezzi umani, potevano l'opera e l'intervento di uomini, sia pur grandi come Mosè e Aharon ottenere il radicale mutamento di una situazione che sembrava disperata? Non erano forse riusciti senza successo i primi tentativi che Mosè stesso aveva fatto per migliorare le condizioni del popolo? Ebbene, proprio per l'impotenza e la provata incapacità umana ad ottenere la redenzione d'Israele, proprio perciò doveva rivelarsi la potenza di Dio, sicché Israele imparasse a conoscere le vie provvidenziali nella storia.

Quella d'Israele dunque non sarebbe stata una liberazione ottenuta con mezzi e forze umane, perché nessuna forza e nessun uomo avrebbero potuto ottenere quello che Israele disperava ormai di ottenere: "i figli d'Israele dovevano uscire (con l'intervento) della mano eccelsa" (Es. VI, 1) sicché essi avrebbero imparato a conoscere direttamente Dio, non per astratte verità di teorici insegnamenti, ma attraverso quelle verità che balzano evidenti e rivelatrici dai fatti della storia e dalle esperienze della vita.

Così cominciava ad avere un senso reale la visione del roveto che abbiamo illustrato nella precedente lezione; quella visione non era più un simbolo, ma una realtà perché ora Dio cominciava ad essere vicino ad Israele nel cammino della vita. Ed è forse a quella visione del roveto che si ricongiunge indirettamente l'esodo della nostra Parashà che io definirei come la solenne introduzione ai racconti che seguono; è in questa introduzione che si vuol spiegare il significato e il valore di quegli avvenimenti, di quelle prove e di quei castighi che culmineranno con la liberazione di Israele. Dice dunque quell'esordio: "E Iddio parlò a Mosè dicendogli: Io sono JHWH(*) e mi rivelai a Abramo, a Isacco, a Giacobbe (sotto gli appellativi) di Dio Onnipotente, ma col mio nome IHWH non mi feci conoscere a loro" (Es. VI, 2-3).

Il significato di queste parole, l'anima di esse, è racchiuso in quel nome ineffabile (Ihwh) che è proprio lo stesso nome rivelato a Mosè nella visione del roveto: "Io sono Colui che sono".

- I Padri - dice il Signore - mi conoscevano anche sotto questo appellativo del mio nome che racchiude la mia essenza, ma a loro non mi rivelai se non nelle forme universali della mia verità, in quelle manifestazioni in cui Dio è "El" e "Shaddaj", Dio del mondo naturale, e Dio della vita. Ora però è venuto il tempo in cui io mi farò conoscere sotto la mia più vera essenza, cioè sotto l'appellativo Jhwh, che non risponde alla realtà visibile e conoscibile, ma a quell'inconoscibile, che pure egualmente si manifesta. E sotto questa realtà che mi farò conoscere ai figli di Israele, è nel creare cose nuove e fatti nuovi, è nel portare a compimento ciò che sembra impossibile, è nel difendere il diritto e la giustizia, nel sollevare dalla schiavitù l'oppresso, è nel redimere voi, Israele, che io mi farò conoscere: "allora conoscerete che Io sono il Signore" - Allora! solo dopo che Israele mi avrà conosciuto attraverso la sua straordinaria liberazione, solo dopo che avrà appreso le più profonde verità di Dio, allora Io lo farò mio popolo, perché allora soltanto egli potrà far tesoro di quanto ha imparato, potrà conoscere e sentire Dio, il vero Dio come la più grande verità e come il suo unico bene, allora soltanto egli potrà chiamarsi "popolo di Dio".

(*)Con questa sigla si suole trascrivere il nome tetragrammato o nome ineffabile di Dio, la cui vera pronuncia, ignota dopo la fine del 2° Tempio, fu sostituita da quella del nome "ADONAI". Il significato etimologico del nome tetragrammato è "l'Essere" (cfr. anche l'espressione: "Io sono Colui che sono " Es. III 14).