RAV RICCARDO PACIFICI - DISCORSI SULLA TORÀ

XII

VAJCHÌ

(Genesi XLVII, 28 - L)

LA BENEDIZIONE DI GIACOBBE

E IL NUCLEO DELLA GENTE D'ISRAELE


 

Con questa Parashà ha termine il primo libro della Torà e si chiude anche il primo grande capitolo della storia di Israele: il capitolo dell'età patriarcale. E significativo a questo riguardo, che il terzo patriarca, l'ultimo, e per certi aspetti il più importante, e quello che dà il nome al popolo: Israele. E appunto lui, Giacobbe Israel, che suggella la serie degli antichi padri e chiude la storia di questo periodo così ricca di insegnamenti e così affascinante nella sua semplicità narrativa. La morte di Giacobbe è narrata, nella nostra Parashà, con una ricchezza di particolari quale non si riscontra presso nessun altro patriarca; si sente che qui non c'è il semplice racconto della morte, ma c'è la consegna spirituale di un padre ai figli, c'è la fine di un'esistenza e il principio di un'altra, così come osserva il Midrash quando dice: "Giacobbe nostro padre non è morto"; sì, Giacobbe-Israel non muore, è vivo nei suoi figli, è vivo nel popolo che da lui ha origine. Non c'è dunque chiusura di una vita, ma c'è la prosecuzione di questa vita, o almeno il desiderio e l'aspirazione ardente che questa vita continui dopo l'esistenza terrena. È forse per questo che il Midrash immagina che Giacobbe raccomandi ai figli la fedeltà a Dio, la fedeltà all'idea: "riunitevi e ascoltate, o figli di Giacobbe, ascoltate Israel vostro padre" (Gen. XLIX, 2); e forse per questo i figli rispondono col verso della certezza e della fedeltà "Ascolta, o nostro padre Israel; il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno". Come c'è un Dio solo per te, così un unico Dio è per noi. E qui, dopo aver udito dai figli, la solenne proclamazione della loro fedeltà, Giacobbe si accinge a benedirli. È questa non già una benedizione nel senso comune della parola, ma un voto, un augurio, un annuncio profetico che si estende attraverso i figli e i figli dei figli, a tutta la discendenza.

Giacobbe, il padre della stirpe, vede dall'alto la sorte futura della gente di Israele, sicché la sua parola acquista una risonanza che va al di là dell'ora fugace e si spazia e si estende alle future propaggini del suo popolo; ed egli nel suo spirito profetico, le vede nascere: tribù e genti e famiglie diverse e varie per attitudini e applicazioni alla vita nei più svariati campi, ma unite e salde in una idea, unite dalla fede in Dio. Giacobbe le vede nascere e prosperare, queste tribù, con le caratteristiche che sono proprie dei loro capostipiti; e così vede Jehudà capo spirituale della gente, detenere lo scettro e imporre rispetto e obbedienza ai fratelli, vede Dan arbitro della giustizia, vede Giuseppe, il figlio rigoglioso e prospero, saldo e incrollabile nella sua coscienza; lo vede crescere in potenza materiale e arricchirsi dei doni del cielo e della terra; alle opere dei mari vede attendere Zevulun, a quelle dei pingui campi Asher, ai dolci riposi della vita pastorale vede Issakhar, e così ritraendo fedelmente le qualità e i caratteri dei singoli figli, egli vede le famiglie e le genti del suo popolo legate ai lavori fecondi della terra, di quella terra che sarà donata ai suoi discendenti, possesso di Israel, e sulla quale invoca che scendano le benedizioni dall'alto, le benedizioni del Padre Celeste, superiori a quelle del padre terrestre, quelle benedizioni che guardano ai beni provenienti dai monti e alle dolcezze delle alte colline.

Così nell'atto solenne di benedire i suoi figli, il padre Israele s'infutura nella sua gente; in essa trapassa fin d'ora il suo spirito anelante a riposare su quella terra che fu dei padri e che sarà dei figli, su quella terra nella quale vorrà che il suo corpo sia composto nella pace eterna, ma ove già vive il suo spirito nel momento in cui il suo animo profetico guarda con fiducia all'avvenire dei suoi figli.