I PIRKÈ AVOT
o LE MASSIME DEI
PADRI
Il testo ebraico, la traduzione
e le annotazioni
Trattato di
Avot, introduzione
L’appendice contiene uno schema storico
dell’epoca e cenni biografici intorno ai Dottori
nominati nel trattato.
Testo ebraico in sei pagine, una
per capitolo
Pensato per la lettura nei Betè haKeneset con la distribuzione di fotocopie su fogli A4.
Lettura cantilenata con
l’aria romana della Mishnà
Commenti
Le basi della morale ebraica secondo i Pirkè Aboth
Enzo
Bonaventura, testo
estratto dalla Rassegna Mensile di Israel, 1931
Lezioni sui Pirkè
Avot
organizzate on line dall’UCEI nel 2020-5780
L’Omer ed
i Pirkè Avot, rav Roberto Della Rocca, audio
Capitolo 1
Mishnaiot
1-5, rav Gianfranco Di Segni, audio
Mishnaiot
6-10, rav Alberto Sermoneta, audio
Mishnaiot
11-14, rav Michael Ascoli, audio
Mishnaiot
15-18, rav Alfonso Arbib, audio
Capitolo 2
Mishnaiot
1-7, rav Alberto Somekh, audio
Mishnaiot
8-9, rav Adolfo Locci, audio
Mishnaiot
10-12, rav Amedeo Spagnoletto, audio
Mishnaiot
13-16, rav Gianfranco Di Segni, audio
Capitolo 3
Mishnaiot
1-3, rav Yoseph Labi, audio
Mishnaiot
4-7, rav Giuseppe Momigliano, audio
Mishnaiot
8-12, rav Ariel Di Porto, audio
Mishnaiot
13-16, rav Joseph Levi, audio
Mishnaiot 17-18, rav Benedetto Carucci, audio
Capitolo 4
Mishnaiot
1-4, rav Cesare Moscati, audio
Mishnaiot
5-9, rav Umberto Piperno, audio
Mishnaiot
10-12, rav Daniel Touitou, audio
Mishnaiot
13-17, rav Yoseph Labi, audio
Mishnaiot
18-20, rav Michael Ascoli, audio
Mishnaiot
21-22, rav Roberto Della Rocca, audio
Capitolo 5
Mishnaiot
1-3, rav Adolfo Locci, audio
Mishnaiot
4-6, rav Alfonso Sassun, audio
Mishnaiot 7-9,
rav Eliezer Di Martino, audio
Mishnaiot
10-15, M° David Sessa, audio
Mishnaiot
16-19, rav Alfonso Arbib, audio
Mishnaiot 20-22, rav Gianfranco Di Segni, audio
Capitolo 6
Mishnaiot
1-4
rav
Roberto Colombo, audio
rav Daniele Cohenca, audio
Mishnaiot 5-8, rav Cesare Moscati, audio
Mishnaiot 9-11, rav Shalom
Bachbout, audio
Dante Lattes, Commento
alle Massime dei Padri
26
Teveth 5711, 4 Gennaio 1951
La massima introduttiva
Nella lettura pubblica si usa far precedere
ogni capitolo dalla seguente massima tratta dalla Mishnà
di Sanhedrin XI. Essa è come il motto del trattato ed
è la prefazione profetica alla dottrina farisaica.
TUTTO ISRAELE HA PARTE NEL MONDO AVVENIRE,
SECONDO QUANTO È SCRITTO: «IL TUO POPOLO SARÀ FORMATO TUTTO DI ANIME GIUSTE, LE
QUALI POSSEDERANNO IN PERPETUO LA TERRA; ESSI SONO IL VIRGULTO DELLA MIA
PIANTAGIONE, L’OPERA DELLE MIE MANI, DI CUI SI AVRÀ MOTIVO DI MENAR
VANTO».
La citazione è un verso di Isaia LX,
21 e dimostra come i dottori ebrei vivessero nell’atmosfera del
profetismo, di cui intendevano interpretare e continuare lo spirito. Essi danno
alla loro morale quale divisa proprio un passo di quel secondo Isaia che Renan
dichiarava opposto allo spirito farisaico (Histoire du
peuple d’Israel, IV, 130) e riportano nella
chiusa cerchia della loro sinagoga, perseguitata dai greci e dai romani ma
sempre sensibile ai grandi ideali, la visione della Gerusalemme «aperta giorno
e notte per ricevere i popoli».
In quel capitolo il profeta
preannunzia un’epoca di luce e di gloria per il suo popolo. Anche le
genti pagane godranno delle splendide sorti d’Israele e ne
imiteranno i costumi e le idee, mentre dalle più lontane regioni i figli
dispersi accorreranno verso Gerusalemme, accompagnati dai doni e dagli inni
delle popolazioni straniere. Sarà un’era di pace, di giustizia e di
prosperità che si prolungherà indefinitamente, Il popolo meriterà per la sua
virtù di rimanere in possesso della sua terra in perpetuo e di chiamarsi il
popolo di Dio.
Isaia non alludeva ad un al di là
ultraterreno dove gli ebrei sarebbero vissuti beati dopo la morte, per effetto
della loro condotta immacolata, della santità della loro vita. Egli prediceva
un’epoca della storia in cui il popolo, tornato sulla via della
giustizia, sarebbe stato riscattato dall’esilio, sollevato dalle sue pene
e ricondotto nel paese degli avi, dove avrebbe goduto a lungo la libertà e il
possesso della sua terra. E data la vita onesta che
Israele avrebbe allora condotto, dopo le sofferenze patite e il castigo
sofferto, quell’era di pace sarebbe durata senza limite di tempo. Il sole
della felicità non sarebbe più tramontato. È l’annuncio o la promessa
dell’era messianica rappresentata poeticamente dal Profeta; è la
descrizione della pace piena e duratura nel seno della nazione ebraica e fra i
popoli del mondo. Questo è il «mondo avvenire» a cui si allude nella sentenza
rabbinica, cioè l’immortalità del corpo nazionale in terra, non l’immortalità
dell’anima individuale nel cielo.
Certo nella terminologia dei farisei,
«mondo avvenire» significò non solo l’età messianica ma anche il mondo
ultraterreno, dove si andrebbe dopo la morte, ed anche quell’altra età
che dovrebbe succedere a quella messianica e alla resurrezione dei morti e
della cui beatitudine gli antichi dottori dicevano di non avere nessuna idea (Sanhedrin, 29). «La credenza ebraica
nell’immortalità - scriveva Moshé Hess –
è inseparabile dalla credenza nazionale-umanitaria nel Messia. Anche nel più
tardo giudaismo rabbinico, l’idea della vita futura - per quanto i
Rabbini vi insistano di continuo - non è mai pervenuta a distinguersi
espressamente dall’idea del regno messianico. Anche il cristianesimo
primitivo, fintantoché i suoi fondatori non si furono staccati dal giudaismo e
dal suo culto nazionale, ebbe come base quell’idea popolare ebraica
secondo la quale la resurrezione dei morti, il regno del cielo e il mondo
futuro non avevano altro significato che l’era messianica, la rinascita
d’Israele, il regno di Dio o il regno dello spirito (Rom und
Jerusalem, lettera III).
«Israele - ha scritto più tardi Renan
- è giunto all’ultima tappa del suo sforzo secolare, il regno di Dio, sinonimo
dell’avvenire, e la resurrezione. Estraneo all’idea di
un’anima distinta che sopravvive al corpo, Israele non poteva giungere al
dogma della sopravvivenza altro che facendo rivivere l’uomo intero.
L’unità dell’uomo era così rispettata meglio di quanto facessero
molte scuole pretesamente spiritualiste. Queste anime
restano in vita per regnare coi santi, per godere del trionfo della giustizia
che esse hanno fatto sorgere, per far parte del regno eterno, in seno ad una
umanità rigenerata. Ecco l’idea che ha convertito il mondo. La fede
nell’avvenire è stata fondata dal popolo che ha meno creduto alla
immortalità dell’individuo». (Histoire du Peuple d’Israel, IV, 327).
Ma Olàm
ha-bà (mondo avvenire) è per lo più, nella lingua
dei dottori, il mondo della pace e della giustizia terrena, l’era
messianica che segue all’era delle discordie, degli odii e dei vizi in
cui viviamo attualmente e in cui gli uomini sono vissuti in ogni secolo e
paese.
«La distribuzione dei beni di questo
mondo - dice una sentenza rabbinica - non ha nessuna analogia con la
distribuzione della ricchezza che si avrà nel mondo futuro. Nel mondo attuale
c’è chi possiede un campo di grano e non possiede un orto e viceversa;
nel mondo futuro non ci sarà nessuno che non abbia possedimenti e in montagna e
in pianura e in valle». Oppure: «Il mondo futuro non somiglia a questo mondo.
Nel mondo presente la vendemmia e la pigiatura dell’uva sono causa di
gravi preoccupazioni; nel mondo futuro invece basterà portare un chicco
d’uva in un carro o in una barca e collocarlo in un angolo della casa
perché basti quanto una gran botte». Oppure: «Dice il Signore: In questo mondo
solo singole persone hanno avuto il dono della profezia; nel mondo avvenire
invece tutti gli ebrei diventeranno profeti». Si tratta, come si vede, della
prosperità economica e della perfezione intellettuale, effetto della concordia
e della virtù degli uomini.
La frase «possederanno o erediteranno
la terra», oltre che in Isaia, si trova più volte nei Salmi (XXV, 13; XXXVII,
9, 11, 22, 29), dove ai fidenti in Dio, agli umili, ai giusti, si
promette una sede stabile e sicura nel paese avito; dai Salmi è poi passata nel
Vangelo: «Beati i mansueti, perché possederanno la terra» (Matteo, V, 5)
assumendo, secondo il costante indirizzo della predicazione cristiana, un
significato spirituale, per cui terra vuol dire cielo e la pace e
la felicità non sono più nazionali e collettive, ma individuali e ultraterrene.
Per Elia Benamozegh i due termini: regno dei cieli
ed eredità della terra sono sinonimi, cioè indicano una cosa sola.
Lo Zohar interpreta la parola terra del verso dei Salmi citato,
quale sinonimo di regno (Morale juive etc.
pag. 112). In un senso analogo a quello ebraico, il termine «mondo avvenire» è
rimasto anche nella letteratura evangelica: «A chiunque avrà parlato contro lo
Spirito Santo, non sarà perdonato né in questa età né nell’età a
venire» (Matteo, XII, 32 - vedi anche Marco, X, 30; Luca, XVIII,
30) cioè nell’età messianica.
La frase di Isaia, staccata dal
contesto del capitolo, che voleva essere un preannunzio di tempi lontani e
perfetti, parrebbe a prima vista aver assunto nella esegesi dei Rabbini un
significato assoluto ed una portata generale, quasi che agli Ebrei di qualunque
tempo e luogo debba essere assicurata incondizionatamente la beatitudine
eterna o la felicità terrena, per un privilegio od una elezione che li
sottrarrebbe alle sorti comuni e ne farebbe la nazione infallibile e
privilegiata. Ma come Isaia presupponeva una pienezza di virtù e il pentimento
da parte degli Ebrei dopo il duro castigo e l’espiazione, così anche i Rabbini,
ponendo quella proposizione come motto dei Pirké Avoth, che erano per loro la guida verso la santità,
presupponevano che gli Ebrei, volendo ottenere in terra o in cielo la pace e la
gioia, adempissero prima alle raccomandazioni contenute nelle massime dei
Maestri a cui quella proposizione era premessa. L’osservanza dei precetti
morali enunciati in quei capitoli avrebbe loro assicurato la felicità promessa
dal profeta ai buoni e ai giusti del loro popolo. Quindi l’onesta
condotta è sempre la condizione della felicità la quale è promessa tanto agli
Ebrei giusti e buoni quanto ai «pii delle nazioni del mondo, che hanno parte
egualmente nel mondo futuro».
L’esegesi farisaica è più
logica e aderente al testo della Bibbia di quel che sembri a prima vista, anche
se talvolta si ha l’impressione che i Rabbini, per nobili fini didattici
o morali, non rispettino troppo il senso letterale delle Sacre scritture ma ne
cerchino altri, figurati o anagogici. In questo caso essi pensano, come Isaia,
ad un’età nuova e lontana, dopo l’avvento messianico o, come dice
il mistico De Useda, dopo la resurrezione dei morti,
che è pure ‘olàm ha-bà,
in cui questo popolo, dopo aver resistito al male e alle iniquità degli
uomini, dopo esser sopravvissuto alle età tempestose e tragiche della Storia ed
esser stato purgato delle sue colpe, sarà restaurato nella sua funzione e fatto
degno di godere del tempo sereno che spunta finalmente per Lui e per
l’umanità. Moshé Hess chiamava questa felice
età il sabato della storia, come i Rabbini chiamavano Sabato
quel «mondo che è tutto bello». Essi dovevano confortare in qualche modo, con
qualche speranza di giustizia e con qualche lieta visione, il popolo oppresso
da tiranni stranieri o da tiranni indigeni, il popolo che aveva invano atteso i
giorni felici sognati tornando in patria dopo l’esilio. E più d’uno
avrà domandato: Di questa beatitudine futura che cosa ce ne facciamo noi che
viviamo nel dolore e moriremo nell’oppressione? E allora era venuta la
parola consolatrice dei dottori ad assicurare gli scettici e gli impazienti che
tutto Israele sarebbe stato presente un giorno, dopo la palingenesi, a quelle
beate età, come aveva già preannunziato il profeta.
A quando risale questa parola di fede
dei Rabbini nella felice età serbata ad Israele, a tutto Israele? Pare che essa
fosse la conclusione di una lunga disputa che ebbe luogo in seno alle classi e
alle scuole della società ebraica all’alba del cristianesimo. «Molti
credevano che dovessero esser pochi coloro che avrebbero meritato di partecipare
alla vita immortale. I circoli giudeo-cristiani ritenevano che la grande
maggioranza dell’Umanità fosse condannata alla perdizione, se il sangue
del redentore non fosse venuto a salvarla». (Dr. J. H. HERTZ, Sayings of the Fathers,
pag. 4). In Matteo, (VII, 14) è infatti scritto: «La porta stretta e la via
angusta menano alla vita e pochi son coloro che la trovano», oppurre (XXII, 14): «Molti sono i chiamati, ma pochi gli
eletti». A questa idea i Rabbini opponevano la loro dottrina morale, secondo la
quale la felicità e il bene non dipendono da un fatto esteriore o da un
principio di fede, ma dalla virtù degli uomini e quindi tutti sono
capaci di ottenerli. Tutti, ebrei e pagani. «Aprite le porte ed entri la gente
onesta che osserva la lealtà» (Isaia, XXVI, 2). Il Profeta non dice: «Ed
entrino i sacerdoti, i leviti, gli israeliti, ma dice: entri la gente onesta».
Ancora: «Io chiamo a testimoni il cielo e la terra che pagàno o ebreo, uomo o
donna, schiavo o schiava, su tutti poserà lo Spirito Santo, secondo le opere
che compieranno».
Guida a queste buone opere potevano essere le massime dei
Sapienti, dei padri morali cioè dei maestri del popolo, che erano
state raccolte e tramandate nei cinque capitoli di Avòth.